Fulmine a ciel sereno
Ovvero, l’intervista ad Alessandro Di Meo diventa l’occasione per parlare della professione del fotogiornalista
Una foto che in poco tempo fa il giro del mondo, quella scattata da Alessandro Di Meo, free-lance collaboratore dell’Ansa. Una foto-icona, finita sulla maggior parte dei media mondiali. Una di quelle che raccontano, quasi senza bisogno di spiegazioni, un avvenimento mediatico di portata mondiale, le “dimissioni” del Papa dal suo incarico: un vero e proprio fulmine a ciel sereno.
A dir la verità, di sereno quel giorno c’era ben poco. A Roma nuvole nere si sono radunate sul cielo della città e nel giro di poco è iniziato a piovere.
E sotto la pioggia Alessandro Di Meo è rimasto fermo, in attesa. Il fotogiornalismo puo’ essere snervante: ore di attesa per una foto, esposti alle intemperie del clima o alle esigenze (in ordine sparso ed incompleto) degli editori, dei clienti, degli uffici stampa, dei “personaggi”, dei tempi televisivi, della gente comune, del traffico, eccetera. Ma regala enormi soddisfazioni, come in questo caso, quando il tuo scatto fa il giro del mondo e viene riconosciuto come icona. “Il fotogiornalismo, ci dice Alessandro Di Meo, che abbiamo raggiunto telefonicamente, è una delle professioni più ambite perché si pensa che basti avere una macchina fotografica al collo e scattare. In realtà il fotografo passa la maggior parte del tempo ad aspettare. Non a casa sul divano, ma in giro, per strada, al freddo o al caldo, sotto l’acqua. Io ieri sono stato a fare un servizio di mattina, poi son tornato, ho spedito le foto, mi hanno chiamato e sono andato a San Pietro. Ho passato la giornata per strada”.
“Mi trovavo sotto al colonnato, vicino all’edicola, in attesa dell’uscita dell’edizione speciale dell’Osservatore Romano. Mentre stavo aspettando ho pensato – e detto ad un collega- ‘se viene il temporale voglio fare le foto a San Pietro coi fulmini’. Ho cercato di riprendere la Basilica e gli appartamenti del Papa, così mi son spostato sotto al colonnato. Poi è arrivata la pioggia, molta, e son rimasto a combattere contro tutte le difficoltà tecniche che nascono dal voler fare una foto così. Ma sono stato ripagato” ha raccontato.
Non il caso quindi, ma l’intenzione, ha fatto sì che si creasse l’occasione giusta. Quella stessa intenzione, o intuizione, che solo un fotogiornalista puo’ pensare nel giro di pochi minuti quando si trova a dover raccontare un accadimento di interesse giornalistico.
Sui giornali siamo poi abituati a vedere immagini “anonime”, senza firma (al massimo l’agenzia).
“Alessandro Di Meo sono io, si può vedere chi sono, la mia agenzia non ha bisogno di descrizione (Ansa), e se io ho fornito tutti i dati possibili per accertare che la foto sia vera, è vera. Sono dieci anni che faccio il fotografo, ho ventinove anni di mutuo sulle spalle, e non avrei alcun interesse a mettere una foto finta: le bugie hanno le gambe corte, sarebbe la fine della mia carriera di fotografo, e non è quello che voglio” continua a raccontare Alessandro.
“Il nome va inserito sempre, il problema è che sui giornali non lo mettono mai (in Italia, ndr). La firma della fotografia è fondamentale. Come il giornalista si assume la responsabilità di quello che scrive, così il fotografo. Non siamo giornalisti di serie B. L’autorevolezza passa attraverso la firma, che è un riconoscimento: rivela la fonte. Nel caso specifico, ho fatto tante foto che sono uscite sui giornali, e anche questo potrebbe far pensare che io sia bravo e che non abbia interesse a realizzare falsi”.
Abbiamo colto l’occasione di questo “caso mediatico” per mettere in luce alcuni dei problemi che ruotano intorno alla professione del fotogiornalista. Condizioni di lavoro difficili, compensi molto più bassi rispetto a qualche anno fa e un atteggiamento delle testate nazionali, poi, che non aiuta: gli editori riconoscono il valore della professione solo sfruttando le immagini, dandogli spesso il giusto valore di grandezza sulla pagina del giornale, ma non riconoscendone l’autore gran parte del lavoro diventa vano. La funzione specifica del fotogiornalismo è quella del racconto visuale di un fatto, ed eliminandone l’autore si creano le condizioni per un approccio dell’opinione pubblica sempre più disincantato e poco disposto a “credere” a quello che vede. L’autorevolezza così non è riconosciuta affatto: su internet si son sperticati a trovare gli indizi che la foto in questione fosse un falso, si sono anche scomodati ricercatori del CNR (forse la mossa giusta per ogni possibile smentita) quando sarebbe bastato vedere il lavoro svolto dal fotografo e non mettere in discussione la sua professionalità. La bufala può essere dietro l’angolo ma non sarà realizzata da un fotogiornalista che ha cara la propria professione e la sua credibilità.